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Blockchain per l’identità digitale: tre parole che promettono di cambiare il modo in cui dimostriamo chi siamo online.

Ma di cosa parliamo davvero quando mettiamo insieme questi concetti? Chi possiede i nostri dati, chi li controlla e chi decide quando condividerli? È possibile avere un’identità che ci segua ovunque, senza duplicazioni e senza passare ogni volta da un intermediario? E ancora: come si conciliano comodità e privacy, rapidità di accesso e tutela da furti o abusi?

Negli ultimi anni l’identità è diventata il vero perno delle nostre vite digitali: apriamo conti, firmiamo contratti, accediamo a servizi pubblici e privati con una semplicità solo apparente. Dietro quella semplicità, però, si nascondono fragilità e rischi che non sempre vediamo.

Ma quali sono le domande giuste da porsi prima di abbracciare un nuovo paradigma come quello dell’identità digitale? Quanto è maturo, quali limiti ha, e che impatto potrebbe avere su cittadini, aziende e istituzioni?

Che cosa si intende con identità digitale?

Per identità digitale si intende l’insieme strutturato di informazioni che descrivono in modo univoco un soggetto (persona, azienda, dispositivo) e che permettono a servizi online di riconoscerlo, verificarlo e autorizzarlo.

Non è un “documento” unico, ma un fascicolo dinamico fatto di attributi (nome, data di nascita, partita IVA), identificatori (e-mail, numero di telefono, codice fiscale), credenziali (password, OTP, biometria, certificati) e regole che stabiliscono come questi elementi possono essere usati e condivisi.

Il cuore dell’identità digitale è il processo di verifica: prima si accerta che il soggetto sia chi dichiara di essere (onboarding/KYC, controllo dei documenti, confronto biometrico), poi gli si rilasciano credenziali con una determinata forza o livello di garanzia.

Da quel momento, ogni accesso o firma avviene tramite autenticazione (dimostro chi sono) e autorizzazione (ottengo i permessi adeguati). Più il processo iniziale è robusto e più forti sono i fattori di autenticazione, maggiore è l’affidabilità con cui i servizi possono fidarsi dell’identità presentata.

Un aspetto spesso sottovalutato è il ciclo di vita dell’identità: emissione, aggiornamento, sospensione, revoca. I dati cambiano (indirizzo, ruoli in azienda, titoli), le credenziali scadono, i permessi devono essere rivisti. Senza una gestione puntuale, si accumulano rischi e incongruenze.

Entrano poi in gioco interoperabilità e federazione: poter usare la propria identità su più servizi senza creare mille account distinti riduce attriti e migliora la sicurezza. Standard come OIDC/SAML consentono il “riconoscimento” reciproco tra chi emette e chi verifica l’identità. In Italia, per esempio, SPID e CIE sono strumenti noti che permettono accesso a servizi pubblici e privati con livelli di garanzia differenziati.

Infine, privacy e controllo: un’identità digitale moderna deve rispettare principi di minimizzazione, consenso informato e trasparenza. L’utente dovrebbe poter vedere quali attributi lo rappresentano, scegliere quali mostrare caso per caso e revocare l’uso dei propri dati quando non servono più.

In questo articolo proveremo a fare chiarezza per capire se la rivoluzione annunciata è davvero a portata di mano e cosa può cambiare con essa.

Qual è la differenza tra identità digitale attiva e passiva?

Si parla di identità digitale attiva quando l’utente partecipa in modo consapevole alla propria identificazione: crea un account, presenta una credenziale, approva un accesso con un fattore forte, appone una firma elettronica. È l’identità “dichiarata” e verificata, costruita su attributi rilasciati da fonti affidabili (issuer) e su azioni che dimostrano il possesso legittimo delle credenziali. Qui il controllo è esplicito: l’utente decide quando autenticarsi e quali dati condividere.

La identità digitale passiva, invece, è l’insieme delle informazioni inferite o raccolte in background durante l’uso dei servizi: impronte del dispositivo, indirizzi IP, cookie, abitudini di navigazione, orari di accesso, pattern di comportamento, cronologia degli acquisti, metadati delle comunicazioni. Non serve che l’utente “dica” chi è: i sistemi costruiscono un profilo probabilistico osservando segnali e correlazioni. Questo profilo è utilissimo per valutazioni di rischio (es. riconoscere un accesso anomalo da un luogo insolito) e per l’autenticazione adattiva (innalzare i controlli quando il contesto è sospetto), ma pone interrogativi di trasparenza e consenso: chi vede questi dati? Per quanto tempo? E con quali finalità?

In sintesi, l’identità attiva è quella che presentiamo e dimostriamo, mentre l’identità passiva è quella che viene dedotta da come ci muoviamo online.

Le due dimensioni coesistono e, se governate bene, si completano: la prima garantisce certezza e diritti (accessi, firme, responsabilità), la seconda offre contesto e sicurezza (rilevazione frodi, protezione degli account). La chiave è l’equilibrio: usare il minimo di dati necessari, mantenere il controllo in capo all’utente e separare con cura ciò che è dichiarato da ciò che è inferito.

 

Sistemi di identità centralizzati: quali sono i limiti?

I modelli tradizionali di identità digitale si basano su architetture centralizzate: ogni servizio crea e gestisce il proprio database di utenti, le proprie credenziali e le proprie regole. Questo approccio, nato per risolvere problemi locali, oggi mostra limiti evidenti in uno scenario in cui le persone interagiscono con decine di piattaforme, in ambiti pubblici e privati, spesso anche transfrontalieri.

Il primo limite è la concentrazione del rischio. Un archivio centrale è un bersaglio attraente: se viene violato, l’impatto è sistemico. Non solo: più dati accumula, più aumenta il valore per un attaccante e la superficie d’attacco per chi lo gestisce. Anche quando non c’è una violazione, l’errore umano o una cattiva configurazione possono esporre informazioni sensibili.

Il secondo problema è la frammentazione dell’identità. Ogni volta che ci registriamo, replichiamo dati e passiamo per procedure di verifica (onboarding, KYC) spesso ridondanti. Ne derivano inconsistenze (indirizzi non aggiornati, ruoli che cambiano e non vengono propagati), costi gestionali e un’esperienza utente fatta di account multipli, password dimenticate e recuperi continui.

C’è poi il tema della debolezza delle credenziali. Password riutilizzate, OTP via canali non sempre sicuri, phishing e social engineering minano la tenuta dei controlli. Le soluzioni “federate” alleviano parte del problema ma creano nuove dipendenze: se il provider centrale ha un incidente o cambia le condizioni, l’accesso a catena ne risente.

Un quarto limite riguarda privacy e controllo. I sistemi centralizzati faticano ad applicare davvero la logica del “minimo necessario”: spesso l’utente concede più del richiesto (o non ha scelta), fatica a capire chi vede cosa e non dispone di strumenti chiari per revocare selettivamente il consenso. La trasparenza dei log e l’auditabilità dipendono dalla buona fede e dall’efficienza del gestore.

Infine, c’è l’interoperabilità. Standard e protocolli aiutano, ma nella pratica esistono “isole di fiducia” che non comunicano bene tra loro. Questo limita la portabilità degli attributi (es. qualifiche professionali, titoli di studio, status aziendali) e rallenta processi che avrebbero bisogno di attestazioni verificabili, riutilizzabili e valide ovunque.

Blockchain e identità digitale: come funziona?

L’idea di fondo è semplice: invece di far dipendere l’identità da un unico ente centrale, si distribuisce la fiducia tra più attori e si usano meccanismi crittografici per provare che un’informazione su di te è vera, senza doverla ricopiare o rivelare più del necessario.

Due standard del W3C rendono tutto questo praticabile: i Decentralized Identifiers (DID), identificatori controllati dall’utente e non legati a registri centrali, e le Verifiable Credentials (VC), attestazioni digitali firmate che possono essere verificate da chiunque senza contattare chi le ha emesse.

Il “giro” tipico coinvolge tre ruoli: un issuer (chi rilascia la credenziale, ad esempio un’università o un ente pubblico), un holder (tu, che custodisci le tue credenziali in un wallet digitale) e un verifier (un servizio che ti chiede prova di un’informazione, per esempio che sei maggiorenne o che possiedi una certa qualifica). L’issuer firma la credenziale; quando il verifier te la chiede, tu presenti solo ciò che serve e il verifier controlla la firma e lo stato della credenziale in pochi istanti. Questo flusso è alla base delle soluzioni enterprise più note sull’identità decentralizzata.

Dove entra la blockchain? Non per “caricare” i tuoi dati personali, ma per ancorare gli elementi che servono alla verifica: i DID (o i loro metadati), le chiavi pubbliche degli issuer, gli registri di revoca/stato delle credenziali. In questo modo chi verifica può essere certo che una chiave appartenga davvero a un dato issuer e che una credenziale non sia stata revocata, senza dipendere da un singolo punto di controllo. Il risultato è un’infrastruttura auditable e resistente a manomissioni, pensata per interoperare tra organizzazioni diverse.

Un aspetto chiave è la selettività nella condivisione: grazie alle VC e, quando previsto, a tecniche di selective disclosure o zero-knowledge proofs, puoi dimostrare un attributo senza svelare tutto il documento. L’esempio classico è l’“over 18”: il servizio riceve la prova che superi una soglia d’età, ma non vede la tua data di nascita completa. Questo approccio riduce il rischio di esporre più dati del necessario e migliora la conformità per privacy e minimizzazione.

Dal punto di vista operativo, l’utente si affida a un wallet d’identità (mobile o desktop) per conservare e presentare le proprie credenziali; le organizzazioni adottano framework di governance che stabiliscono regole comuni su emissione, verifica e revoca. In ambito pubblico, modelli come la Self-Sovereign Identity (SSI) sono spesso citati per semplificare l’accesso ai servizi, aumentare la trasparenza e ridurre le frodi, mantenendo però un equilibrio con requisiti normativi e di accountability.

Blockchain per l’identità digitale: vantaggi concreti per utenti e organizzazioni

Quando parliamo di blockchain per l’identità digitale il beneficio non è “avere i dati sulla chain”, ma costruire fiducia verificabile tra soggetti che non si conoscono. Questo si traduce in vantaggi pratici per cittadini, aziende e PA.

  1. Più sicurezza, meno punti critici.
    Nei modelli centralizzati, un database è un bersaglio unico. Le informazioni necessarie alla verifica (chiavi, registri di stato/revoca) sono distribuite e firmate: la manomissione diventa evidente, l’affidabilità non dipende da un solo gestore e l’utente non deve consegnare copie dei suoi documenti a ogni servizio.
  2. Controllo dell’utente e minimizzazione dei dati.
    Nella gestione dell’identità digitale con blockchain l’utente presenta solo gli attributi strettamente necessari (es. “sono maggiorenne” senza esporre la data di nascita). Questo riduce l’esposizione di dati sensibili, limita la superficie d’attacco e facilita la conformità a principi come consenso informato e data minimization.
  3. Portabilità e riuso delle attestazioni.
    Una credenziale verificabile rilasciata da un ente affidabile (università, PA, banca) può essere riutilizzata su più servizi senza rifare continuamente onboarding e KYC. Meno duplicazioni, meno errori, processi più rapidi: valore immediato per e-commerce, HR, accesso a servizi finanziari e pubblici.
  4. Interoperabilità by design.
    Standard aperti e registri condivisi permettono a ecosistemi diversi di riconoscere le stesse attestazioni. L’identità diventa portabile tra Paesi, settori e piattaforme, riducendo lock-in e costi di integrazione.
  5. Riduzione delle frodi e delle dispute.
    Le credenziali firmate e i registri di revoca/stato riducono falsificazioni e uso indebito. La tracciabilità crittografica (non la tracciabilità dei dati personali) facilita audit e verifiche a posteriori, accelerando la gestione di contenziosi e chargeback.
  6. Miglior esperienza utente (e meno costi operativi).
    Meno password, meno moduli ripetitivi, meno attese. Per le organizzazioni significa ridurre ticket di supporto, procedure manuali di verifica e tempi di onboarding dei clienti o dei dipendenti.
  7. Allineamento con modelli Zero Trust.
    Identità forti e attestazioni aggiornabili si integrano con politiche di accesso dinamiche (least privilege, risk-based access), rafforzando l’intero stack di sicurezza applicativa.

Blockchain e identità digitale: il passo successivo tra wallet, interoperabilità e governance

Guardando al futuro, è chiaro che la blockchain per l’identità digitale non è più soltanto un tema sperimentale, ma un tassello chiave nella costruzione di ecosistemi digitali più sicuri e inclusivi. L’adozione di standard aperti come i Decentralized Identifiers (DID) e le Verifiable Credentials (VC) sta già delineando una nuova normalità: identità custodite in wallet digitali, facilmente portabili da un servizio all’altro, convalidabili ovunque senza bisogno di intermediari centrali.

Il prossimo passo sarà garantire la vera interoperabilità. Oggi esistono iniziative nazionali e progetti pilota, ma la sfida sarà far sì che le credenziali emesse da un’università, un ente sanitario o un governo siano riconosciute senza attriti in ambito internazionale. Senza questo allineamento, il rischio è moltiplicare “isole” di fiducia che non dialogano, replicando gli stessi limiti dei sistemi centralizzati.

Un altro fronte decisivo riguarda la governance: chi stabilisce le regole del gioco? Come si bilanciano trasparenza e riservatezza, diritto all’oblio e immutabilità, responsabilità degli issuer e diritti degli utenti? Trovare un equilibrio sarà essenziale perché la gestione dell’identità digitale con blockchain possa consolidarsi come strumento affidabile tanto per i cittadini quanto per le organizzazioni.

Infine, non va dimenticato l’aspetto culturale: fidarsi di un modello decentralizzato significa ripensare il concetto stesso di identità, passando da un dato da custodire a una prova da dimostrare quando serve.

È una rivoluzione silenziosa, ma destinata ad avere un impatto profondo. Se il percorso sarà guidato da standard solidi, collaborazione tra pubblico e privato e attenzione ai diritti degli individui, la blockchain e l’identità digitale diventeranno non solo più sicure, ma anche più vicine a come vorremmo vivere e interagire nel mondo digitale di domani.

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